Eric è solo l’ennesimo prodotto travestito da thriller che, in realtà, anche ad un occhio poco attento, si mostra come tutt’altro. Tra fragilità mentale, povertà e vagabondaggio, rapporto genitori-figli disfunzionale, omosessualità e Aids, la scomparsa del giovane Edgar Anderson rappresenta solamente la grande “chiamata all’avventura”, tanto per scomodare Vogler.

Trama
In una New York anni ’80, Edgard, 9 anni, mentre sta andando a scuola da solo, sparisce senza lasciare traccia. A lanciare subito l’allarme suo padre Vincent, ideatore del popolare programma televisivo per bambini Good Day Sunshine, e sua madre Cassie, una persona buona all’apparenza troppo fragile. Benedict Cumberbatch interpreta Vincent, un uomo tormentato dai suoi disturbi mentali, accentuati da alcol e droga, che, abbandonato da tutti nella ricerca del figlio, considerato fuori di sé, si affida ad un personaggio immaginario disegnato dal bambino, di nome Eric, dalle sembianze di un mostruoso pupazzo blu. Alla fine si mostrerà il suo unico alleato nella schizofrenica ricerca di Edgard.
La fragilità umana
Sicuramente il filo conduttore che lega tutti i protagonisti sullo schermo è la fragile natura umana, che rende tutti così facilmente giudicabili e bersagli dell’errore. Dai primi fotogrammi scopriamo un padre che vive nel mondo dei bambini e che pretende che suo figlio viva nel mondo dei grandi. Un Vincent che non è pronto a porsi al fianco di Edgard, capace di assisterlo nelle difficoltà, ma un uomo che preferisce mostrare la parte più cruda del mondo. Tra psicosi e alcolismo non nasconde certamente i propri errori. Glielo dice George Lovett, il portinaio del condominio dove vive la famiglia, quando il bambino scompare e Vincent decide di andare a parlare con lui: «Deve gestirla. Oscurità. Non farla vincere. […] Vedevo le vostre gare per le scale, beh avrebbe tanto voluto vincere, ma lei lo batteva. Come mio padre, doveva sempre vincere lui».
Gaby Hoffmann interpreta Cassie, una madre vittima di se stessa e delle sue sigarette. Una madre fragile anche agli occhi di suo figlio, egli stesso non riconoscendole pienamente l’autorevolezza di un genitore ricontrolla sotto il letto dopo che la madre si è accertata dell’assenza dei mostri che infestano le stanze di tutti i bambini.
Lennie Wilson, amico di Vincent, interpretato da Dan Fogler, combatte con la sua tormentata sessualità. Lo scopriamo nel dialogo che ha con Cassie, che gli pone la domanda che governa tutta la serie «Che hanno i burattini di speciale?», e Lennie dà voce con la sua risposta a tutti i personaggi della storia «Dicono quello che non riusciamo a dire».
Il detective Michael Ledroit, interpretato da McKinley Belcher III, non è solamente colui che serve per indagare e risolvere il mistero, ma subisce le difficoltà che vivono tutti gli altri. Un amore difficile e struggente, che ci regala uno dei massimi momenti di tenerezza della miniserie.
Il vero mostro non è sotto al letto
Parlando con la stampa americana, la creatrice della serie Abi Morgan – già sceneggiatrice di Suffragette e The Iron Lady – ha dichiarato che Eric non è “basato su un evento specifico”, ma intende piuttosto evocare un’epoca e un luogo. Precisamente il panico da “pericolo degli estranei” che si percepiva della New York di quegli anni. E nel mirino non sono solo gli estranei, ma anche un sistema politico corrotto che collabora con le forze dell’ordine. In questo scenario caotico e privo di tutele, il grande mostro blu creato dall’immaginazione di Edgard non sembra poi così spaventoso. E proprio come capiamo nel sesto episodio del resto «il vero mostro non è sotto al letto».
Troppo per una miniserie (forse)
La curiosità sembra il motore di tutto, che molto probabilmente rimane anche allo spettatore, perso in un turbinio di tematiche troppo importanti per essere esaurite in 6 episodi. Ricchi anaffettivi, bambini neri dimenticati, malattie mentali trascurate, poliziotti corrotti, omosessuali colpiti dall’Aids, senzatetto confinati. Di certo non mancano spunti sui quali riflettere e, sebbene forse la serie non riesca bene a sciogliere tutti questi nodi, tuttavia regala grandi spunti di riflessione. D’altronde, come dice Tolstoj, «tutti pensano a cambiare il mondo ma nessuno pensa a cambiare se stesso».
