Questo 2025 ci ha portato via anche James Foley, figura di spicco nel panorama cinematografico statunitense a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. Un cineasta dallo stile spiccio ed essenziale, in grado di lavorare all’interno dei cliché con robusto mestiere e specialmente di intercettare lo spirito degli anni Ottanta.
Foley non potrà mai essere considerato un autore, perché il suo cinema è sempre stato al servizio del consumo popolare e delle mode, senza la minima velleità autoriale ma spesso con grande senso dello spettacolo e della gestione del racconto.
Tutta la prima parte della sua carriera costituisce un grande racconto americano, uno sguardo d’insieme su un paese, sui suoi compromessi, i suoi abissi oscuri, le sue fragilità e la sua estetica commerciale.
Già con l’esordio Amare con rabbia del 1984, Foley mette in scena un confronto/scontro fra classi sociali, attraverso la tumultuosa love story tra un giovane disadattato (Aidan Quinn) e una cheerleader dell’alta borghesia (Daryl Hannah). Opera che insieme a The Loveless di Kathryn Bigelow e Monty Montgomery e a All’ultimo respiro di Jim McBride, ha contribuito alla fondazione del neo-ribellismo cinematografico americano degli anni Ottanta.

Al servizio di Madonna e dell’estetica video-pop
Nel 1986, Foley inizia a collaborare con l’icona della pop music Madonna, realizzando nell’arco di soli due anni tre videoclip e un film.
La ballata Live to Tell (facente parte di True blue, terzo album della cantante) funziona da ponte che mette in collegamento gli esordi cinematografici di Foley con la sua successiva fase pop, venendo inserita come soundtrack del suo secondo grandioso lungometraggio A distanza ravvicinata (sicuramente il suo miglior film), un crime-drama interpretato da Christopher Walken e Sean Penn (all’epoca compagno di Madonna). Da questa fusione ne nacque un videoclip, in cui è già rinvenibile l’abilità di Foley nel far risaltare le qualità fotogeniche e cinetiche della pop star.
Ma con Papa Don’t Preach avviene la vera rivoluzione, Madonna abbandona il trucco sofisticato e i gioielli e adotta un look da gamine con capelli corti e ossigenati, cantando di gravidanza adolescenziale e di aborto, creando non poche polemiche.
Sia qui che nel successivo True blue, Foley coglie perfettamente l’iconicità filmica di Madonna, creando un ottimo mash-up tra i rimandi vintage anni Cinquanta e alla contemporaneità degli Ottanta. Purtroppo non ha sortito gli stessi risultati la commedia di azione Who’s That Girl, tentativo di attualizzare la Screwball Comedy classica americana (specie Susanna! di Howard Hawks), in cui manca l’incastro fra l’estetica da videoclip e il prodotto filmico, connessione che con Madonna ha centrato solamente Susan Seidelman due anni prima con il teorico e autoreferenziale Cercasi Susan disperatamente.
Gli anni Novanta: Reinventarsi nei generi
Già a partire dagli anni Novanta, il cinema di Foley tende un po’ ad appannarsi esteticamente e a smarrire spesso la propria bussola narrativa, cercando affannosamente di inquadrare il decennio sotto la lente socioculturale, nel tentativo di proseguire l’elaborazione di un racconto di grande respiro sull’America e le sue classi sociali.
In questo pugno di film imperfetti e talvolta salvati solamente dall’abilità registica di Foley, si staglia Americani, forse il migliore della decade, tratto dalla pièce Glengarry Glen Ross di David Mamet con un cast stellare che va da Jack Lemmon ad Alan Arkin passando per Al Pacino. Parabola amarissima sullo spietato e corrotto mondo del lavoro in cui non si salva niente e nessuno. Con Paura invece Foley torna alla lotta di classe, attraverso la storia di una ingenua e agiata teenager (Reese Witherspoon) che si innamora di un giovane psicopatico (Mark Wahlberg). Un dramma famigliare un po’ stereotipico, che nella seconda parte si trasforma in un thriller teso, in altalena tra efferatezza e autoparodia.
In questi anni Foley cerca di reinventarsi e adeguarsi ai tempi e alle mode, ma spesso realizza opere puramente al servizio delle star, come il discreto L’ultimo appello, vedibile solamente per la performance di Gene Hackman, mentre con The Corruptor – Indagine a Chinatown, preleva il divo hongkonghese Chow Yun-fat e lo inserisce in un contesto americano, ibridando l’action asiatico con quello statunitense.
Gli anni Duemila: In piena involuzione
Con l’approssimarsi del nuovo millennio, il cinema spiccio ed efficace di Foley perde definitivamente mordente, per involversi in un mercato inquinato dalla produzione un tanto al chilo. Confidence – La truffa perfetta, nonostante la presenza di Rachel Weisz, Dustin Hoffman, Paul Giamatti e Andy García, diventa uno sterile fanservice in cui i divi (specie Hoffman) sono ridotti a maschere e caricature. Ma il nadir artistico di Foley giunge con Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso, secondo e terzo capitolo tratti dalla pruriginosa trilogia letteraria di E. L. James, in cui il cineasta firma anonimamente dei prodotti dalla confezione smarmellata, che risultano essere il rovesciamento pedestre e insipiente della sua genuina idea di racconto cinematografico americano.
