Presentato fuori concorso a Cannes, Mission: Impossible – The Final Reckoning riassorbe e al tempo stesso espande la materia spettacolare dell’intera serie, facendosi riflessione potente sui rischi e i limiti dello spettacolo cinematografico contemporaneo. Una sfida (im)possibile all’immagine digitale e alla liquidità dell’immaginario audiovisuale che ci sovrasta quotidianamente. Il franchise, aperto nel lontano 1996 da Brian De Palma, era una cellula a sé perfettamente aderente al linguaggio estetico del maestro statunitense. Poi la saga ha seguito gli slanci action di John Woo, la ridefinizione tecnico-estetica di J. J. Abrams, la commercializzazione di Brad Bird e infine ha incontrato Christopher McQuarrie, il regista giusto per ridefinire la mitologia del prodotto e del suo interprete.

Tom Cruise: Un divo allo specchio
“Un olimpo di vedette domina la cultura di massa, ma comunica tramite questa cultura con l’umanità corrente. I divi, attraverso la loro duplice natura, divina e umana, operano la circolazione permanente tra il mondo della proiezione e il mondo dell’identificazione. Concentrano su questa duplice natura un possente complesso di proiezione-identificazione”. Le parole di Edgar Morin, espresse all’interno del suo noto saggio L’industria culturale, risuonano all’interno del film di Christopher McQuarrie e nella ridefinizione del divo Cruise. Già da qualche anno l’attore americano (anche in qualità di produttore), sta lavorando alla ri-costruzione della propria identità divistica, come un demiurgo di sé stesso che riattraversa la galleria di specchi del proprio passato per rifondare il mito della propria immagine-riflesso.
Top Gun: Maverick era già un superbo metatesto che lavorava in questa direzione, ma The Final Reckoning lo supera facendosi potente riflessione teorica e politica sulla dittatura del virtuale.
Corpo a corpo tra analogico e digitale
Si è letto da molte parti che questo ultimo capitolo della saga, possiede elementi estetico-narrativi provenienti dal cinema di James Cameron. Verissimo e la lunga sequenza ambientata nel sottomarino è abitata da una tensione compressa, subacquea e blindata, che molti hanno accostato a The Abyss, ma non dimentichiamo che c’è anche tanto di Aliens – Scontro finale e di Titanic. La lotta tra individuo e macchina, analogico e digitale è uno dei pilastri di tutto il cinema cameroniano e McQuarrie la riporta prepotentemente al centro del proprio cinema e del dibattito mediatico e audiovisuale. Cruise-Hunt cerca di salvare il mondo (e il cinema) dal predominio virtuale, all’interno di una società in cui le A.I. stanno riprogrammando l’identità umana, atrofizzandone le facoltà intellettuali e artistiche.
La lotta tra analogico e digitale si spalanca verso un’epica dei sentimenti tragico-lirica, attraverso la quale si palesano i fantasmi del grande cinema sovietico (Tarkovskij ma anche Chuciev), mentre Cruise-Hunt come in una Cartoonia a rovescio, porta alle estreme conseguenze la fisicità del corpo e della carne per farla finalmente trionfare sull’identità virtuale.
Tramonti e albe
The Final Reckoning ha superato la spettacolarità fine a sé stessa, il giochino ludico da giocattolo hollywoodiano, che resisteva in forma residuale nell’occhio e nella mente del fruitore, legando il prodotto alle origini seriali della TV anni Sessanta.
Christopher McQuarrie realizza due ore e quaranta di pura speculazione teorica sul cinema, i suoi meccanismi spettacolari, i suoi divi, i suoi tramonti e le sue albe. A differenza di No Time to Die, in cui con la morte di Bond il cinemondo si fa plumbeo e luttuoso, Hunt ri-nasce in un cinemondo riconciliato con sé stesso e le proprie immagini. Un epilogo dal sapore malickiano, in cui ancora abbiamo la facoltà di credere a un futuro audiovisuale, dove il cuore e il cervello possono battere l’algoritmo.
