In questo maggio 2025 restiamo orfani anche di Robert Benton, superbo sceneggiatore troppo spesso sottovalutato o addirittura quasi ignorato come regista. Si perché Benton ha subito un po’ la triste sorte che è toccata anche ad altri sceneggiatori di ferro passati dietro la macchina da presa, come Lawrence Kasdan, per citarne uno, (ovviamente con i dovuti paragoni). Autori relegati alla scrittura, al plot cartaceo e quindi considerati privi di un autentico stile registico.
Ma la grandezza del Benton cineasta, risiede nella giusta distanza applicata fra il proprio sguardo e il profilmico, prendendosi cura dei suoi interpreti, dei loro volti e dei loro dialoghi densissimi (a volte quasi teatrali), lasciandoli liberi nella loro azione performativa, ma al tempo stesso sapendoli controllare con estrema discrezione.
Quindi non un regista dallo stile piatto o addirittura privo di un’impronta riconoscibile, perché il suo tocco invisibile ma ben presente, si condensa con precisione all’interno di uno sguardo discreto e pieno di umiltà.

Una presenza invisibile nella New Hollywood
Benton inizia la sua attività di sceneggiatore all’interno del movimento newhollywoodiano, verso la fine degli anni Sessanta, firmando un capolavoro come Gangster Story e a seguire due grandi film come Uomini e cobra e Ma papà ti manda sola? Il problema è che nonostante la candidatura alla migliore sceneggiatura originale per Gangster Story, agli occhi dei più, i tre i lavori vengono ricordati quasi esclusivamente per la direzione sapiente dei rispettivi Penn, Mankiewicz e Bogdanovich e per la brillante performance dei loro interpreti. Questo ovviamente tende ad appannare un pochettino agli occhi del pubblico la scrittura densa e acuminata di Benton, che nel 1972 esordisce nella regia con l’amarissimo e crepuscolare Cattive compagnie. Un western Seventies che non ha nulla da invidiare (tanto nella scrittura quanto nella direzione) a illustri colleghi come Huston, Penn, Peckinpah o Altman, nel comporre una mirabile elegia del genere e del cinema (classico).
Benton si muove all’interno del comparto cinematografico statunitense come una presenza invisibile, celebrato anche successivamente per le sue sceneggiature di ferro dagli Academy Awards, ma venendo troppo spesso accantonato in qualità di autore, quando invece il suo fare cinema resta fondamentale per studiare e comprendere la produzione cinematografica di quel periodo.
Nel segno del melodramma
Alla fine degli anni Settanta, Benton realizza quello che ad oggi resta il suo esito registico più riconosciuto e apprezzato, Kramer contro Kramer, un melodramma familiare girato quasi come una pièce teatrale, ricco di dialoghi sapienti (come sempre in Benton) e con quel tocco preciso e discreto nella messa in scena.
Fra le tante sequenze resta scolpita nella mente quella dell’incidente al parco giochi, sottolineata da un montaggio sostenuto ma mai esibizionistico, chiudendosi con l’inquadratura del bambino ferito a terra, senza pietismi o forzature.
Il melodramma scorre fluido nelle vene di tutto il cinema bentoniano degli anni Ottanta, scoperchiando anche la guerra tra i sessi, un confronto/scontro mai inquinato da tifoserie da stadio o grossolanamente ideologizzato, ma sempre osservato alla giusta distanza, con pudore e rispetto. Una lama nel buio è uno straordinario esempio di come Benton riesca a piegare le dinamiche del thriller (hitchcockiano) al proprio discorso sui sessi e i sentimenti (melodrammatici, tesi, tumultuosi) tra uomo e donna, senza però tralasciare la tensione che abita il genere a cui si accosta.
Un testamento stilistico-narrativo
Twilight è uno dei suoi ultimi film (realizzato sul finire degli anni Novanta), uno neo-noir dal sapore epigrafico, un’elegia al proprio cinema e a quello americano tout court. Una sorta di testamento narrativo e stilistico, la summa di tutta l’arte del Benton sceneggiatore e regista, in cui interpreti maiuscoli come Gene Hackman, Paul Newman, James Garner e Susan Sarandon (ma non dimentichiamo la presenza di Stockard Channing) si affidano alla direzione discreta e sempre più essenziale dell’autore.
