Adriano Aprà è stato un insostituibile punto di riferimento per diverse generazioni di critici e cinefili. Fondatore verso la metà degli anni Sessanta della storica rivista Cinema e Film, è stato un prosecutore della linea critica dei Cahiers, diventando tra i massimi critici e cinefili italiani degli anni Settanta insieme a Enzo Ungari.
Aprà ci ha lasciato il 15 aprile del 2024 all’età di 83 anni e la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, di cui è stato direttore artistico per ben otto anni, lo ha omaggiato presentando un documentario-intervista a lui dedicato.
Durante la 61° edizione del Pesaro Film Fest (terminata il 21 giugno 2025), è stato proiettato Io credo nell’inconoscibile di Marco Allegrezza, Edoardo Mariani e Francesco Scognamiglio. Una fluviale conversazione testimoniale di 162 minuti, in cui Aprà si racconta all’interno del proprio studio.
Un’intera giornata nel tempio-studio di Adriano Aprà, per poter entrare nel suo pensiero critico e nella sua idea di cinema come mezzo espressivo e come forma d’arte e di riflessione. La testimonianza di una vita votata all’arte, alla cultura e alla speculazione intellettuale sulle immagini, da parte di uno dei giganti della critica cinematografica.
Attualmente il film è disponibile gratuitamente su RaiPlay nella sezione Fuori Orario: Come (mai) viste.
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Io credo nell’inconoscibile
Il titolo la dice assai lunga sulla dimensione teorica e persino onirica che abitava la persona di Adriano Aprà, il quale non nascondeva di fare sogni fantasiosi e persino di sognare di guardare un film e di esservi all’interno. Aprà ha sempre dichiarato che il suo fine era quello di lavorare su un passaggio dall’amore istintuale per la settima arte (la cinefilia appunto), a una riflessione ponderata sulla stessa e sui singoli film, cercando di organizzare un discorso critico partendo da una materia che è pura passione.
Inoltre Aprà si definiva un passeur (su ispirazione di Serge Daney), ovvero un traghettatore di passioni, cercando di mostrare ad un pubblico ciò che lui aveva visto e apprezzato. Ecco che Aprà, per questo motivo, insieme a Ungari è da considerarsi un o dei padri dei cineclub italiani, tra i primi animatori e agitatori culturali legati alla sfera del cinema.
Durante questa lunga testimonianza/racconto, in cui l’esegeta mescola passioni, ricordi ed esperienze personali, vengono sottolineati alcuni principi per lui incrollabili legati alla settima arte. Partendo dalla differenza spesso labile tra il film di finzione e film documentario (citando Flaherty, Rossellini, Ejzenstejn e Vertov) e arrivando a sottolineare quanto oggi si badi troppo ai contenuti tralasciando l’importanza della forma, che è tutto per un testo filmico.
Inoltre Aprà ha dichiarato che il passaggio dalla pellicola al video, rappresenta l’incarnazione della camera-stylo, nota affermazione teorica di Alexandre Astruc, ovvero il poter utilizzare la macchina da presa con la stessa libertà di una penna stilografica.
Aprà e il critofilm
Come gli esponenti de I Cahiers du cinéma (da Truffaut a Godard), anche Aprà ha sempre desiderato fare cinema oltre che guardarlo e scriverne. Difatti è stato attore in opere di grande rilievo sul finire degli anni Sessanta, come Dillinger è morto di Marco Ferreri, Amore e rabbia di Bernardo Bertolucci, Umano non umano di Mario Schifano e Othon di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet.
A partire dagli anni Settanta, Aprà ha realizzato anche alcuni lavori come regista, sviluppando e ampliando il concetto di critofilm, creato negli anni Cinquanta dallo storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti. Per critofilm si intende un prodotto audiovisivo attraverso il quale si interpreta l’opera d’arte e nel suo caso erano film che riflettevano sul fare cinema.
Olimpia agli amici, del 1970, è la rielaborazione di un tragico fatto personale accaduto ad Aprà, interpretato dall’attrice Olimpia Carlisi, della quale all’epoca era innamorato. Opera anomala e sperimentale che fu presentata al Festival di Locarno.
Prassi e forma per un testamento culturale
Io credo nell’inconoscibile è un autentico testamento culturale e i giovani registi che lo hanno realizzato, si sono prodigati a costruirlo attraverso un attento e scrupoloso utilizzo della forma filmica, quasi a voler aderire ad una prassi in cui il pensiero di Aprà potesse rispecchiarsi nel linguaggio del film stesso.
Il documentario è prevalentemente caratterizzato da un quadro fisso, con un paio di dettagli ravvicinati (di cui uno capovolto) e un primissimo piano. Tutti segni che stimolano l’ingresso all’interno del pensiero e del linguaggio di Aprà.
Tra i segmenti estratti da film e materiale d’archivio, spicca un inserto del videoartista Giacomo Verde sulla vita e l’immortalità. Questo breve inserto condensa il concetto di inconoscibilità e quindi di apertura verso l’eternità già espresso nel titolo del documentario.
