Pochi giorni fa è stato presentato in nuova veste (e in lingua originale) al Cinema Ritrovato di Bologna L’angelo della vendetta, capolavoro maledetto di Abel Ferrara. Il terzo lungometraggio del cineasta newyorkese, è stato restaurato in 4K da Arrow Films, presso i laboratori Warner Bros. Motion Picture Imaging e Resillion, partendo dal negativo originale in 35 mm.
Un’opera materica, impregnata di umori fetidi quasi ad ogni fotogramma, in grado di registrare la sporcizia fisica e morale che infestava New York nei primi anni Ottanta. Rilanciando il sexploitation (genere estremo di matrice sessuale) e il rape and revenge (film di stupro e vendetta), Ferrara compone un’opera oscena, dolente e grottesca, partendo dal modello scorsesiano di Taxi Driver ed estremizzandone la forma fino alla caricatura estrema.
MS. 45 (titolo originale) è un rigurgito furibondo di brevi sequenze shock, che raggiunge (attraverso il kitsch e il pornografico) la pura estasi mistica. Un film che non si dimentica facilmente e che incide indelebilmente lo sguardo anche a distanza di oltre quarant’anni.

Un thriller urbano sospeso tra genere e autorialità
Con L’angelo della vendetta Ferrara (insieme allo sceneggiatore Nicholas St. John), racconta la storia di Thana (indimenticabile Zoë Lund), una giovane ragazza muta che lavora all’interno di una sartoria. La giovane diventa vittima di un maniaco che la minaccia e la stupra, ma al secondo episodio di violenza carnale Thana lo uccide. Da quel momento in poi la giovane, armata di calibro 44 (da qui il titolo originale), diventa una sanguinaria vendicatrice.
Tutto il cinema di Abel Ferrara è intriso di senso di colpa, violenza, pornografia e misticismo, tutti elementi che puntualmente il cineasta mescola abilmente tra loro, alternandosi tra il prodotto d’autore e quello di genere, talvolta creando un compromesso linguistico tra le due forme.
MS. 45 trattiene ancora quell’estetica da cinema bis, ma la costruzione è sapientemente autoriale anche se in alcuni casi fu scambiato erroneamente per un prodotto rozzo.
Ferrara rimesta gli scarti del cinema underground alla Morrissey (con giubbotti di pelle e bidoni dell’immondizia in bella mostra), rimandando anche al thriller all’italiana. La descrizione dell’ambiente sartoriale in cui lavora Thana è vicino a quello dell’atelier di moda presente in Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Giuliano Carnimeo. Il film però resta principalmente una rilettura dei codici stilistici e narrativi del thriller urbano. In primis Taxi Driver (citato persino nella nota sequenza allo specchio) e Il giustiziere della notte di Michael Winner in versione femminile.
L’osceno e il comico
Pur nella sua tragica disperazione e nella sua furia violenta e distruttiva, il cult di Ferrara inchioda la crudezza estrema del racconto alla croce di una ricerca mistica e teologica. Un percorso di ascensione che attraversa tutto il suo cinema, ma che in L’angelo della vendetta lascia anche sovente spazio a un umorismo crudo e disturbante. La componente di crude humor, si evince già nei primi minuti di film, quando Thana subisce lo stupro in mezzo ai bidoni dell’immondizia. La breve sequenza viene ritmata da un montaggio serrato che alterna il volto grottescamente mascherato dello stupratore alle espressioni caricaturali della ragazza durante la violenza. I volti vengono deformati in una caricatura carnevalesca, mentre i corpi sono spesso ridotti a marionette. Ne è un ottimo esempio la morte del fotografo crivellato di colpi nel suo studio da Thana.
L’osceno e il comico vanno di pari passo nell’opera di Ferrara, che culmina in una festa di carnevale, dove Thana in abiti da suora, compie una carneficina per poi restare uccisa. Il tutto viene raccontato attraverso una forte estremizzazione estetica (rallenty e barocchismi cromatici) e sonora. Il commento musicale martellante e distorto non abbandona l’orecchio dello spettatore fino ai titoli di coda.
Per un percorso mistico di cristologico dolore, fuori da qualsiasi femminismo
Lontano dalle tendenze MeToo ancora a venire, il cult movie di Abel Ferrara non è un’opera di rivendicazione femminista, ma la radiografia dolente e rassegnata dell’irredimibile perversione dilagante all’interno della Grande mela.
Pur essendo girato spesso in soggettiva, facendoci percepire la volgarità marcescente della società newyorkese attraverso lo sguardo smarrito di Thana, non c’è mai una presa di posizione, una facile demagogia di genere, come invece spesso accade nel cinema contemporaneo statunitense (Promising Young Woman ne è un esempio).
Lo spettatore, insieme a Thana, è un muto osservatore di questo coacervo di aberrazioni umane. La mascolinità è si tossica e mostruosa, ma anche alcune figure femminili sono dipinte come megere (la signora Nasoni e la barbona che inveisce).
La spirale omicida che fa nascere una nuova Thana, non è puro revanscismo femminista, ma un chiaro processo che tende verso l’assoluto. Un percorso cosparso di sangue e membra umane per raggiungere una vetta di cristologica dissoluzione del personaggio.
