Unico film italiano in concorso alla 78° edizione del Festival di Cannes, Fuori conferma la capacità, più unica che rara, da parte di Mario Martone nel gestire abilmente e senza retoriche la materia biografica. Il biopic è un genere decisamente complesso e pericoloso da gestire, specialmente all’interno del cinema italiano contemporaneo, dove spesso resta vittima di vizi di forma e legato a convenzioni narrative ed estetiche. Martone riesce a fondere, con la sua consueta maestria, teatro e letteratura inserendoli in una dimensione filmica, esprimendo al meglio l’arte e la vita della scrittrice Catanese Goliarda Sapienza e proseguendo il proprio percorso antropologico, in cui il personaggio si racconta attraverso lo spazio urbano, quale spazio mentale e deposito emozionale e memoriale.
Martone ha sempre perseguito una scrittura cinematografica vivace e pulsionale e l’incontro con la scrittura letteraria di Sapienza (altrettanto viva e istintuale), ha creato un cortocircuito in cui le diverse forme testuali si sono rispecchiate, senza mai avere il sopravvento una sull’altra, ma creando un amalgama preciso e visivamente ammaliante.

Goliarda Sapienza: Scrivere la propria vita
Martone ha tentato spesso di tradurre in forma cinematografica la scrittura letteraria o teatrale, facendo propria la materia ma senza stravolgerne la matrice. Da Elena Ferrante (L’amore molesto) a Ermanno Rea (Nostalgia), passando per Goffredo Parise (L’odore del sangue), Giacomo Leopardi (Il giovane favoloso) e il teatro di De Filippo e Scarpetta (rispettivamente Il sindaco del rione Sanità e Qui rido io). Con Fuori invece lavora su un testo autobiografico di Goliarda Sapienza (L’università di Rebibbia), cercando di raccontare l’arte e la vita della talentuosa scrittrice e spesso (con)fondendo i due piani. La (con)fusione creativa sta alla base della produzione letteraria di Sapienza.
Sapienza è stata riscoperta recentemente grazie alla serie L’arte della gioia (tratto dal suo omonimo capolavoro), diretta da Valeria Golino che ritroviamo protagonista di Fuori proprio nel ruolo di Goliarda. Questo gioco di rispecchiamenti crea un filo rosso che lega le due opere cinematografico-televisive, pur nella differenza delle fonti (L’arte della gioia è un feuilleton e un romanzo di formazione, mentre L’università di Rebibbia possiede un taglio socio-realistico) e della resa espressiva tra la serie di Golino e il film di Martone. Complice della riscrittura cinematografica anche la sodale e compagna di vita del cineasta partenopeo, Ippolita di Majo, ma spesso il film pare farsi da sé, proprio per la libertà di scrittura che vi è alla base. Quasi un’opera aperta in cui Golino si fa tramite e musa ermeneuta dell’arte e della vita di Sapienza.
Mario Martone e la costruzione di un set emozionale
Mario Martone nasce come regista teatrale e ciò ha influenzato non poco il suo stile cinematografico. Rasoi, mediometraggio del 1993, mostra già un buon compromesso tra arte performativa e arte visiva, e se successivamente l’impianto meta-teatrale si è sempre più ridotto e integrato nella materia filmica, l’autore ha però mantenuto una grande attenzione nella costruzione degli spazi di azione.
Dallo spazio scenico di Rasoi ai set (ri)costruiti nelle sue opere successive, set-città che costituiscono il rispecchiamento emozionale e memoriale dei personaggi che li abitano. In Fuori non è solamente Roma nella sua totalità a farsi set emozionale, riverberando ed espandendo i drammi personali, i patemi e i legami affettivi dei personaggi femminili, ma anche luoghi come la prigione, il bar, la stazione, l’interno del taxi e la profumeria. Personaggi femminili vibranti e mutevoli su cui tutti svettano la Goliarda di Valeria Golino e la Roberta di Matilda De Angelis, senza dimenticare la Barbara di Elodie, sacerdotessa di un tempio della femminilità che si svela all’interno del suo negozio.
La profumeria di Barbara appare come uno degli spazi emozionali più intensi. Dopo aver assistito a un dialogo fra le tre donne in uno spazio kitsch delimitato da specchi, velluti e mensole con i profumi allineati, Goliarda si addentra nel bagno. Scopriamo attraverso i suoi occhi uno spazio semi-buio e spoglio, rischiarato da una luce rosata. Le tre donne si spogliano e fanno la doccia insieme, momento carico di sensualità e delicatezza. Successivamente consumano una cena frugale nello spazio-mensa della boutique e si passa a un’illuminazione desaturata (sempre puntuale il lavoro fotografico di Paolo Carnera), creando un’immagine dall’aura quasi sacra.
Martone si conferma un autentico creatore di set emozionali, liberandovi all’interno l’indomita fisicità delle sue interpreti e sciogliendola in un (melo)dramma popolare che possiede il vigore del cinema di Salvatore Piscicelli.
Fuori dal coro
Fuori è un titolo icastico nel sottolineare il rapporto tra la vita dentro e fuori dal carcere (il film si svolge negli anni Ottanta quando l’autrice era stata appena scarcerata). Goliarda Sapienza, paradossalmente, quando viveva con le sue ex compagne di cella fuori dalle mura, si sentiva ancora dentro, ma proprio per questo veramente libera.
Fuori sta anche a significare lo spirito letterario di Sapienza, quale voce fuori dal coro, lontana dalle convenzioni e dalle retoriche, in perfetta connessione con lo spirito cinematografico di Martone, il quale continua a portare avanti una progettualità filmica permeata da uno stile ineludibile, ma al tempo stesso libero e aperto alle contaminazioni esterne.
